Altro nome significativo nel panorama poetico cavarzerano è senza dubbio Ettore Mattiazzi, autore di numerose
rime che gli sono valse innumerevoli attestati e premi ad ogni livello.
Mattiazzi Ettore nacque a S. Pietro di Cavarzere (il 24 novembre 1917) per trasferirsi poi a Boscochiaro: figlio
di Angelo e di Bego Stella, fu l’ultimo di sei figli.
Dopo la scuola elementare continuò gli studi nel Seminario di Chioggia dove terminò il ginnasio, ma, una volta
lasciato il Seminario, per avere un titolo regolare dovette frequentare la quinta ginnasio al Bocchi di Adria.
Conseguì successivamente il titolo di maestro elementare a Rovigo: sarà questa la sua professione che eserciterà
in diverse sedi del Circolo didattico di Cavarzere-Cona, e dal 1945 a Boscochiaro, scuola in cui rimarrà in servizio
fino al pensionamento (1976).
Sposato con Bello Gisella e padre di tre figli, Mattiazzi ha esercitato una intensa attività in paese, collaborando
strettamente alla vita pastorale della Curazia prima e della Parrocchia poi, iscritto all’A.C., fondatore e direttore
della Filodrammatica.
Proprio nel maggio del ’50 era in programma per la domenica 28 il dramma in tre atti “La madre”: ma la sciagura
del Gorzone, nelle cui acque periva anche la coprotagonista Fontolan Giuliana, impedì tragicamente l’esecuzione.
Ricoprì anche incarichi politici, ma la sua fama, la sua maggiore passione è la poesia in vernacolo e in lingua,
hobby nel quale si è sempre egregiamente destreggiato.
Ettore Mattiazzi è Cavaliere della Repubblica italiana per meriti didattici, amministrativi e sociali; ma è anche,
grazie ai riconoscimenti per la sua produzione poetica, Commendatore honoris causa, Professore in Lettere
honoris causa, Legion d’oro, Accademico Valentiniano, Accademico de II Machiavello, della Città di Roma, della
Contea di Modica, di San Marco, de II Perseo, della Città di Boretto, di Iblea, ecc.
La sua prima pubblicazione data al 1977: su invito di amici ed estimatori dà alle stampe una sessantina di
composizioni poetiche in vernacolo e in lingua nella raccolta El vento e le rame, che gli assicura un
successo di lettori e di critica. Dieci anni dopo, nel 1987, una seconda pubblicazione, con un centinaio di poesie
in vernacolo, dal titolo On fià de gnente, recensita dal Prof. Giovanni De Pascalis e dal comm. Pietro
Conforto Pavarin.
Suoi componimenti sono presenti nelle antologie Polesine de la me zente (Rovigo), Insieme tra le
righe (Marcon Venezia), I contemporanei (Venezia), Matre Maria (Terni) e in altre antologie l
etterarie o raccolte curate per vari concorsi.
La partecipazione a concorsi e premi poetici in tutta Italia è infatti l’altra interessante caratteristica di questi
decenni di produzione poetica dell’autore boscochiarese: medaglie d’oro e d’argento, targhe e trofei non si
contano. Tra gli innumerevoli primi premi elenchiamo soltanto alcuni di quelli arrivati nell’anno 1990: Città di
Spoleto, Città d’Assisi, Grand prix de Mediterranée (NA), B. Luigi Guanella (Roma), Italia letteraria (MI),
N. Macchiavelli (FI) e, infine, il primo premio Città di Rovigo ottenuto con la poesia in vernacolo La Mena e
Momi il 25 novembre e il primo premio al concorso Giano dell’Umbria (PG) con la poesia in lingua Un
rottame, conseguito il 2 dicembre 1990.
Una produzione poetica davvero prolifica e che si caratterizza per un’intensità di sentimento e per una fluidità
di espressione assolutamente eccezionali.
È la vita vissuta che canta il nostro autore: la vita segnata dal dolore, dalla tristezza, ma anche e soprattutto
dall’amore, dall’altruismo e, in definitiva, dalla fede, che traspare come spirito vivificante in tutte le sue liriche.
Ma anche la vita semplice che si colora con le descrizioni amiche delle cose che circondano l’esistenza comune,
con le sottili intuizioni che interpretano il linguaggio della natura e dell’ambiente, con la ricchezza antica e
intramontabile della saggezza popolare che si nutre di proverbi e di reminiscenze.
Una produzione poliedrica, che sa adattarsi alle circostanze degli eventi tragici o gioiosi, solenni o feriali; che
sa proporre dubbi e imprimere certezze, che sa rispecchiare il linguaggio e le attese della gente e al tempo
stesso riesce a proporre valori da conservare e difendere.
Una duplice forma, quella adottata dal Mattiazzi, nella mai decisa scelta preferenziale per la lingua o per il
dialetto: da buon insegnante non rinuncia all’italiano che ha trasmesso a intere generazioni di scolari, ma
da buon cavarzerano, da buon boscochiarese di elezione, non sa rinunciare alla sua “lingua madre” che gli
detta i sentimenti e le parole dal più profondo dell’animo. È per questo che in ambedue gli ambiti espressivi
si ritrova la stessa vena poetica, la stessa carica di pensieri e di ideali, anche se tradotte in forma più nobile
e solenne nella lingua, e in forma più semplice e diretta in vernacolo.
Di lui pubblichiamo le ultime due composizioni premiate, l’una rappresentativa della sua produzione in dialetto
cavarzerano, l’altra per la produzione in lingua italiana.
La Mena e Momi
Eco la storia de la Mena e Momi,
do antichi veci da la me contrada
che mai gnissun ghea visto in baracada,
ma sempre a messa prima e a le funsion.
Lu andava vanti par tagiarghe l’aria,
la Mena drio che la faxea i so passi;
e quando el scapussava in buse, o in sassi,
pianeto el ghe dixeva: “Atenta, ciò!”.
Lu el tatarava sempre inte ’l so orto;
ea la tegneva in goerno la caseta!
Pà i povereti la so fregoleta...
Sora la tola profumava on fior.
On bruto giorno lu el se ’mala in leto...
No ghe pi gnente che lo poe salvare!...
La Mena sa, pur tutavia da fare
la se ga dà. L’amor soo el se ne va...
“On s-ciantenin el balcon te meto in sbàcio...
Ghe xe le stele... e ’a luna inpensierie...
le batisòsoe no, le xe sparìe...
Te also on fiantin la fìama del canfin...”
Ne ’a tarda sera la vose in preghiera:
“No andare via, te prego e inploro
parchè mi, seto, mi co ti mi moro!...
No andare via, ma sta chi co mi!...”
Ma Momi on segno so la boca el voe
che ’o lassa andare a l’altro mondo in pase...
La Mena on baso la ghe dà... e la tase...
Lo lava tuto da la testa ai piè,
lo veste ben col vestito de ’a festa;
anch’ea se veste come andasse a cena,
e la se coega in fianco a la so pena...
... Dopo do dì li ga catà cussi.
Un rottame
Sommerso dai detriti
di quella civiltà che, col grigiore
della miseria, t’avea tutto sfatto
tu vaghi nel silenzio d’un mondo che ti sfugge.
Tu sei un rottame da buttar nel fondo,
nella voragine dell’assoluto.
Il tuo tempo fu sprecato
alla ricerca pazza
d’egemonia su tutti i tuoi fratelli
clonati in gestazione di miseria.
Sui volti loro spezzato è il sorriso,
sugli occhi loro
c’è il vuoto eterno.
Or tu balbetti le frasi sconnesse
che portan sol desolazione all’anima.
Nato a S.Pietro di Cavarzere il 24 novembre 1917. Nel 1946, anno del suo matrimonio,
si trasferì a Boscochiaro.
Chiara Zulian
Clicca qui per leggere la poesia "Il Cristo" in omaggio al dipinto ad olio, regalato
alla Chiesa parrocchiale di Boscochiaro, dal pittore cavarzerano Gelindo Crivellaro il
23 luglio 1983
Clicca qui per leggere l'ultima poesia del Maestro Ettore Mattiazzi scritta il 6/2/1995
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E’ stato insegnante elementare per quasi quaranta anni.
Che fosse un uomo dall’alto profilo etico e morale, dall’alto senso civico lo dimostra il fatto
che dopo la Liberazione fu assessore comunale per nomina del Prefetto e vi rimase fino alle prime
elezioni comunali del 1946 alle quali non si presentò.
Più tardi però il suo desiderio di mettersi al servizio della comunità lo riporta all’impegno
politico e nel 1965 è eletto nel Consiglio comunale di Cavarzere e gli viene affidato
l’assessorato alla Sanità prima e alla Pubblica istruzione e Sport poi.
Per i suoi meriti didattici, di impegno sociale e di Amministratore pubblico nel dicembre del 1969
è nominato Cavaliere al merito della Repubblica italiana.
Questo per quanto riguarda l’uomo Mattiazzi.
Soffermiamoci ora sulla sua “attività” di poeta, cui forse sarà maggiormente legata la sua
memoria.
E’ proprio in grazia della sua produzione poetica che ottiene il titolo di Commendatore honoris
causa, di professore in Lettere honoris causa, della Legion d’Oro, di Accademico di prestigiose
Accademie nazionali e internazionali.
Nel 1977 pubblica il suo primo volumetto di poesie in dialetto veneto-cavarzerano “el vento e
le rame”, che ha avuto un’ottima accoglienza di lettori e di critica.
Il vento è l’invisibile forza del tempo che tutto travolge e percuote, le rame sono
gli esseri della natura, uomo compreso, che sono spogliati delle foglie, dei ricordi, dei sogni
e delle illusioni.
Nel 1985 pubblica la sua seconda raccolta in dialetto “On fià de gnente”.
Si, perché basta on fià de gnente per conservare il tempo, ma quello di “ieri”.
Quello delle tradizioni popolari, quello dei giochi dei fanciulli, quello dei primi amori.
Nel 1991 esce “Schegge”. La scheggia è un pezzetto, un frammento tagliente di legno,
di pietra.
Che senso assume nel linguaggio poetico?
Metaforicamente si può dire che la vita è come un frutto che spicchio dopo spicchio, scheggia dopo
scheggia, è spogliata, dissolta e distrutta da un mostro implacabile, insensibile e vorace che,
guarda caso, si chiama vita.
E il rapporto con Dio e la fede?
Il Dio del poeta è, si, padre, ma un padre che lascia troppo soli i suoi figli che si bruciano
“nell’ottusità di una superbia altera”.
Cristo-Dio è sempre sulla croce e il poeta non lo invoca a scendere ma invita l’uomo a salirvi.
E la fede?
La fede è viva ma assomiglia ad un urlo.
tratto dall'articolo "Poeti a Cavarzere" del periodico "La Città" del giugno 2007
[Fotocopia dell'originale e testo prelevati dal sito internet
www.sanpietrodicavarzere.org]